La Pasqua tra sacro e profano nei ricordi di Nino Brescia.
- Ottavio Moretti
- 13 apr 2017
- Tempo di lettura: 10 min

Dopo i festeggiamenti del carnevale, con il mercoledì delle Ceneri inizia il lungo percorso di intensa preparazione spirituale alla Pasqua per accogliere la Resurrezione di nostro Signore Gesù Cristo. La Quaresima è uno dei tempi forti che la Chiesa cattolica celebra lungo l'anno liturgico. È il periodo che precede la celebrazione della Pasqua ed è caratterizzato dall'invito insistente alla conversione a Dio. Sono pratiche tipiche della quaresima il digiuno ecclesiastico e altre forme di penitenza, la preghiera più intensa e la pratica della carità. Questo periodo inizia con il Mercoledì delle Ceneri, quando tutto il popolo di Dio riceve il segno delle ceneri, e si estende fino al giovedì santo. Per cui in realtà la Quaresima è di 44 giorni. Ricorda i quaranta giorni trascorsi da Gesù nel deserto dopo il suo battesimo nel Giordano e prima del suo ministero pubblico. L'ultima settimana del tempo di quaresima è detta Settimana Santa, periodo ricco di celebrazioni e dedicato al silenzio ed alla contemplazione. Comincia con la Domenica delle Palme, che ricorda l'ingresso di Gesù in Gerusalemme, dove fu accolto trionfalmente dalla folla che agitava in segno di saluto delle foglie di palma. Per questo motivo nelle chiese cattoliche, durante questa domenica, vengono distribuiti ai fedeli dei rametti di olivo benedetto (segno della passione di Cristo). Il Sabato Santo, unico giorno dell'anno in cui non si amministra la Comunione salvo come viatico, è incentrato sull'attesa della solenne Veglia di Pasqua che si celebra fra il tramonto del sabato e l'alba del Nuovo Giorno. Inoltre, il Sabato Santo è l'unico giorno dell'anno senza alcuna liturgia, ed è perciò detto "aliturgico". Non soltanto non può essere somministrata la Comunione, ma non si celebra nemmeno la Messa, e di solito nelle chiese i tabernacoli sono spalancati e privi del Santissimo, che viene conservato in sacrestia. Gli altari sono spogli, senza fiori e paramenti, e un senso di lutto pervade tutta l'area del tempio. Ma veniamo alle tradizioni popolari legate al periodo quaresimale. A metà quaresima, un rito scaramantico praticato in molti paesi d’Italia è l’usanza di segare la vecchia. In molte città e borgate d’Italia era ed è ancora antica usanza esporre nel giovedì della mezza quaresima un’immagine o simulacro di vecchia nel luogo più frequentato, la quale al meriggio o all’imbrunir di quel giorno medesimo veniva bruciata o segata per traverso fra gli urli e gli schiamazzi del popolo accorso in folla a godere di quello spettacolo. Ogni località segue un proprio rituale, prima di giungere alla condanna della vecchia al rogo o al taglio in due mediante la sega. Generalmente la vecchia è piena di dolciumi e giocattoli che vengono distribuiti ai bambini presenti in piazza. Le origini di questo antico rito di mezza quaresima, un po’ carnevalesco ed un po’ pagano, si perdono nella notte dei tempi. Certamente si ispira ad antiche leggende o credenze popolari. Secondo la tradizione, l’origine di questa festa risalirebbe infatti al Medio Evo quando una vecchia dai dubbi costumi, colpevole di aver mangiato carne poiché contravvenne al digiuno quaresimale, fu condannata ad essere segata viva. In realtà la Segavecchia ha radici molto più lontane nel tempo e deriva da antichissimi riti mediterranei legati alla celebrazione del ciclo naturale vita-morte e alle feste del mondo rurale. La Vecchia segata rappresenterebbe la fine dell’inverno e il ritorno della primavera carica di frutti e doni per gli uomini. La Vecchia simboleggia la Quaresima, tempo di privazioni e sacrifici: segarla vorrebbe dire interrompere a metà i quaranta giorni di digiuno e di astinenza per concedersi qualche licenza nel mangiare. La vecchia, nella tradizione popolare, é vista come la colpevole di tutti i mali della stagione agricola passata e per questa colpa, dopo un processo caricatura, viene o segata o bruciata in piazza tra canti, urla e balli con un rogo di purificazione e di propiziazione della stagione che sta per iniziare. In alcune località d’Italia, durante il processo alla Vecchia, prima di procedere all’esecuzione della sentenza, una voce fuoricampo di un immaginario presidente di tribunale legge in prosa aulica e goliardica i capi d'accusa che hanno portato alla condanna, e questa volta non si tratta dell'innocente peccato di gola (l’aver mangiato carne durante il periodo quaresimale), ma di altri ben più piccanti e più gravi: la "sentenza" è, infatti, una scanzonata rassegna degli scandali pubblici e privati finiti sulle cronache locali e nazionali durante l'anno, scandali dei quali si fa ufficialmente carico alla povera vecchia, mentre tutti riconoscono i protagonisti e possono chiederne il più atroce castigo, giocando sul filo dell'equivoco e restando quindi impuniti. Si fa dunque giustizia e la "Vecchia" è squartata dai boia. Dal ventre della vecchia così aperto si rovescia una cascata di regali che sono distribuiti ai bambini presenti in tutta la piazza. Nei ricordi di Nino Brescia, anche a Monopoli, durante il periodo quaresimale, nei vicoli, chiassi e piazzette del centro storico venivano appesi dei fantocci, raffiguranti una vecchia strega (a mesciér), con al braccio un paniere contenente ferri da maglia, 33 taralli, il fuso della lana, peperoncini piccanti (i ceresùl ascquènt o curnitt) ed una treccia di aglio appesa allo stesso paniere. Era sicuramente un rito scaramantico. Poiché le strade di sera erano buie (non era consentita alcuna illuminazione durante questo periodo), i bambini erano rintanati in casa avendo paura di uscire. La Vecchia, altrimenti chiamata “a quarantén”, portava un fazzoletto scuro legato in testa ed al braccio, oltre al paniere, recava un vecchio ombrello. Aveva l’aspetto di una vecchia arrabbiata. Chi l’appendeva aveva influssi benefici per i propri familiari, allontanando disgrazie e iettature. La vecchia veniva riempita di dolciumi, fichi secchi, noci, mandorle, taralli ed altri prodotti fatti in casa. Nella giornata prescelta dalla tradizione la vecchia veniva tirata giù e le veniva fatto un vero e proprio funerale. Era poi riposta in una bara (u tejut) per essere trasporta in giro per le strade ed i vicoli del paese, portata a spalla da alcuni uomini ubriachi oppure su di un carretto dei pescatori (a trainedd) fino anche al cimitero. Dopo il funerale la vecchia veniva bruciata oppure segata in due (serrè a vecchje), come rito scaramantico contro la maldicenza, la cattiva politica. Durante l’operazione di serrare la vecchia tutti partecipavano con dolore all’avvenimento. Diversi anni fa, il Sindaco di Monopoli, volendo abolire questo rito pagano, diede ordine di togliere la vecchia, che penzolava appesa ad un filo della luce, tra il bar Rudy ed il bar Smeraldo. Ma, grazie a Nino Brescia (eterno fanciullo come amava definirlo l’allora Sindaco), fu promossa una raccolta di firme presso una vicina tabaccheria e così la vecchia rimase esposta al pubblico fino al giorno del suo rituale funerale, poiché alla gente piaceva rievocare questa tradizione, benché pagana. Anche la Gazzetta del Mezzogiorno si occupò di questa vicenda, grazie al giornalista Martino Cazzorla. Nino Brescia racconta che una volta la vecchia fu rappresentata dalla cantante Maria De Rosa, più comunemente conosciuta come “a Bianchin”, appartenente al gruppo folk popolare di Monopoli. Maria fu vestita con gli abiti tradizionali della “vecchia” e le venne fatto il funerale, trasportandola sop a trainedd, riccamente addobbata con fiori. Maria fu molto convincente nella parte che recitava al punto tale che la gente che seguiva il corteo funebre piangeva realmente. E così fece il giro del paese passando per il Borgo, per la chiesa di Santa Lucia e così via. Al passaggio della bara, la gente lanciava fiori dai balconi. Durante il corteo Maria, che aveva le mani giunte sul proprio grembo, a titolo scaramantico, ogni tanto faceva le corna senza farsi notate eccessivamente. Fu allestito un gran falò sulla spiaggia di Porto Rosso. All’arrivo del corteo funebre, la gente stava per credere che di lì a poco avrebbero realmente bruciato Maria. Ma questa fu prontamente sostituita da una vecchia di paglia e gettata nel falò. Maria, con gran sollievo, dopo la messa in scena, rivolta a tutti i convenuti fece il gesto delle corna per liberarsi da eventuali malocchi. Venne quindi organizzata una festa con cibo per tutti e balli fino al mattino seguente. Naturalmente Maria cantò tutta la notte. Altra tradizione molto sentita dai monopolitani e dai pugliesi in genere, nel periodo quaresimale, era quella della “pentolaccia”; infatti, il giovedì di mezza quaresima le famiglie si riunivano in campagna per rompere un recipiente di creta (la pentolaccia) che veniva riempito di noci, fichi secchi, mandarini, castagne del prete, lupini, fave e ceci arrostiti, frutta secca e, col passar del tempo, anche caramelle e cioccolate. Così riempita, la pignata (a pignét) veniva posta ad un paio di metri da terra e gli adulti, bendati e armati di bastone, dovevano cercare di romperla per il divertimento dei più piccini. Questa usanza era un pretesto per ritrovarsi, cantare, ballare e mangiare la focaccia farcita di cipolla (i spunzél), taralli, frittate e bere il buon vino pugliese. E così, dopo questi riti di mezza quaresima, dopo i falò di San Giuseppe, si arrivava alla settimana Santa e alla Pasqua. Tempo prima, nelle chiese si metteva il grano nell’acqua, in luoghi lontani dalla luce, per farlo germogliare fino a raggiungere un’altezza di circa 30 centimetri. Il grano così germogliato (aggighjét) veniva messo nei sepolcri (i sbbolcr) predisposti in tutte le chiese. Il grano simboleggiava la nascita di una nuova vita, la Resurrezione di Cristo. Grazie ad alcuni falegnami volenterosi, nella chiesta di San Francesco d’Assisi venivano allestiti in capanne di legno, per l’esposizione ai fedeli, tutti i “Misteri” di Gesù. Ognuna di esse conteneva uno dei misteri: Gesù nell’orto degli ulivi, Gesù alla colonna, Gesù con la Croce, Gesù flagellato, Gesù sulla croce, Gesù morto, l’Addolorata vestita di nero in cerca di suo figlio. Le donne dell’epoca partecipavano a tutte le processioni vestite di nero e con i capelli sciolti sulle spalle. Le donne assumevano un aspetto triste, malinconico, in segno di lutto per la morte di Gesù. Le donne dei pescatori erano particolarmente devote e camminavano scalze, vestite con abiti lunghi. Esse piangevano durante le processioni in cui venivano portati per le strade del borgo i Misteri ed il Crocifisso: in un commovente silenzio, le torce accese, recate dalle donne, lacrimavano cera. Nino Brescia ricorda che, in attesa della Santa Pasqua, le case del centro storico venivano pulite a fondo e si dipingevano con calce bianca sia all’interno che all’esterno. Si battevano i materassi. La Pasqua aveva anche un significato di rinnovamento. Il paese si trasformava per accogliere la Resurrezione di nostro Signore. Le vetrine delle finestre venivano addobbate con tendine ricamate e con alcuni nastrini. Durante il periodo quaresimale, con l’inizio della “Passione” le mamme e le donne anziane si intristivano, immedesimandosi nel dolore che ha dovuto sopportare la Madre di Cristo. In questo periodo veniva rispettato il silenzio: infatti era proibito scherzare, cantare, non si potevano accendere le radio o il grammofono. Ai bambini era fatto divieto di gridare. Non si poteva cantare neanche sul lavoro, ad eccezione di canti sacri. Per le strade ci si salutava sottovoce. Durante la passione di Cristo non si poteva mangiare né carne né pasta al sugo. Per l’epoca, considerata la povertà, ciò era quasi una regola, che veniva rispettata con molta frequenza da molte persone nel corso dell’anno. Veniva rispettato il silenzio anche nelle locali fabbriche delle ciliegie, del tabacco, delle mandorle. In questo periodo di rinnovamento, i sarti era molto indaffarati a rigirare i vestiti laceri, come cappotti e pantaloni. Gli specchi venivano coperti, come anche le immagini sacre. Le campane si legavano dal lunedì Santo. Il sabato Santo alle ore 11,30 tutte le campane del paese suonavano il “Gloria” per la resurrezione di Cristo. Suonavano le sirene delle navi presenti nel porto e della cementeria. In quel momento tutti si scambiavano gli auguri, per strada, dalle finestre, dalle terrazze; c’era chi si inginocchiava e baciava il terreno. Tra amici e parenti ci si scambiavano doni: uova, agnelli di zucchero o di pasta di mandorla e chi poteva permetterselo donava la carne d’agnello. Ci si scambiava anche il tradizionale ghérrochel, che aveva la forma di una borsa con delle uova sode, oppure la forma di una croce o la forma di una bambola, alla quale venivano applicate due uova sode al posto dei seni. In genere era la suocera che regalava alla futura nuora u ghérrochel a forma di bambola. A quei tempi la gente sentiva più vicino Gesù Cristo come conforto alla propria condizione di indigenza. Dopo il “Gloria” si incitavano i bambini a mettere i primi passi: u piccènn avassut minz. Durante la giornata del sabato Santo venivano preparate le focacce con la cipolla. Naturalmente venivano adoperati i porri (i spunzél) e le sarde salate. Tutto il centro storico era pervaso dall’odore di cipolla. Chi poteva permetterselo comprava un po’ di carne per la Pasqua e la Pasquetta altrimenti ci si accontentava di alcune ossa con qualche rimasuglio di carne attaccata. Le polpette al sugo, però, non potevano mai mancare sulla tavola della festa. I fornai avevano un gran da fare ad infornare i tegami di creta (i tienedd) contenenti carne e patate, teste d’agnello (i chepozz). Le panetterie esponevano sui banconi taralli, focacce, ghérrochel. La sera del sabato Santo, alcune squadre di amici si recavano nelle campagne a cantè all’ov, presso le masserie e case dei contadini per suonare delle filastrocche e canti popolari, per ottenere alcune uova in regalo. Nella maggior parte dei casi era una festa per le famiglie visitate che, dopo la serenata, ti ospitavano in casa offrendoti caffè, rosolio e dolci, e naturalmente le uova. Ma in alcuni casi, altro che uova….. erano secchiate d’acqua accompagnate da una catena di improperi, per il disturbo arrecato al sonno. Dopo la Pasqua, arrivava il lunedì dell’Angelo e nessuno rinunciava alla classica gita in campagna: u ningl i nangl. Le famiglie si riunivano in luoghi appartati nelle campagne di Monopoli, recando al seguito il classico tegame di creta con carne e patate, fatto cuocere dal fornaio. Il tegame era talvolta accompagnato da schiuma di mare, polpi e carciofi fritti. Talvolta ci si accontentava della sola focaccia per fare festa. Per concludere questi ricordi dell’antica Pasqua, Nino Brescia ci racconta un aneddoto personale. Un lunedì dell’Angelo di tanti anni fa, quando era bambino, la sua famiglia, che non viveva di certo nel lusso, consegnò ad un fornaio, per la cottura, un tegame di creta pieno di patate e qualche osso. Quando andarono a ritirarlo, il fornaio, facendo confusione, consegnò loro il tegame di un’altra famiglia più abbiente, ricco di carne e patate. Al ritiro dal fornaio, quest’ultima famiglia si ritrovò con un tegame più misero. Ma non si diedero per vinti. Informatisi del luogo in cui la famiglia Brescia avrebbe trascorso la giornata, percorsero 7 chilometri a piedi per andare a riprendersi il proprio tegame. Giunsero però troppo tardi sul luogo del pic nic. La pietanza era stata già divorata. Le donne della famiglia danneggiata (soprannominata “banc’n”), rivolgendosi alle sorelle Brescia dissero: “Cummè Rosì, cummè Ottà, i mò a chum amà fè”. “Mangiatv a tjenedde nost”, risposero le sorelle Brescia. A tjenedde vost jè chin di oss, mangiatevèll vò”, conclusero le donne della famiglia “Banc’n”.
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